Il tema dei licenziamenti è tornato di attualità (se mai avesse smesso di esserlo), dopo la lettera italiana all’Unione Europea. Chiaramente, l’idea dei “licenziamenti facili” non è esattamente di quelle che genera entusiasmo nell’opinione pubblica. Eppure, anche qui è una questione di sostenibilità del sistema, ed inevitabilmente bisogna rendersi conto che è necessario un equo compromesso.
Partiamo dalla considerazione che il licenziamento “all’americana”, dove il datore di lavoro può decidere da un giorno all’altro di lasciare a casa un dipendente, senza dover avere particolari motivi, è insostenibile, perché genera una precarietà le cui conseguenze sono facilmente intuibili e spesso discusse.
Ma l’estremo opposto, dove non è possibile licenziare del tutto, è sostenibile? A nostro parere, prima di dire “non si può licenziare in nessun caso” bisogna riflettere bene. Perché ci sono diversi casi particolari che non possono essere trascurati. Ecco allora qualche spunto di riflessione (alcuni dei quali “ispirati” da mail di qualche lettore), che non pretendono di dare una risposta in un senso o nell’altro, quanto stimolare il dibattito.
- Va fatta una doverosa premessa: nelle passate proposte che sono state etichettate come “licenziamento facile”, era sempre previsto che l’impresa “risarcisse” il lavoratore per il licenziamento, con un certo numero di mensilità (spesso 24) aggiuntive, oltre chiaramente al TFR, e non a “lasciare per strada” da un giorno all’altro i dipendenti. Bisogna riconoscere che sono due scenari ben diversi.
- Il “caso particolare” più significativo è sicuramente quello di un’impresa “strutturalmente in crisi”, dove l’attività (per validi motivi) sia cambiata in modo sostanziale, e ad esempio venga dismessa una linea produttiva. È ragionevole pretendere che l’azienda sia costretta ad impiegare dei dipendenti che non può più permettersi, per fare delle cose di cui non ha più bisogno?
- Una maggiore possibilità di licenziare potrebbe portare anche ad un minor “timore” nell’assumere? Non si può guardare al mercato del lavoro pensando solo ai dipendenti a tempo indeterminato. Ora come ora, le aziende cercano di evitare il più possibile di assumere dei dipendenti, per le rigidità che comporta. Se il mercato del lavoro fosse un po’ più flessibile, si può ottenere che una parte dei “precari” venga assunta (con i benefici che ciò comporta in termini ad esempio di accesso al credito, contributi, ecc.). Può avere senso un quadro in cui si accetta di essere tutti un po’ più precari, ma non ci sono precari “a vita”?
- Una riflessione che suggeriva un lettore con cui discutevo qualche tempo fa, è questa: l’impossibilità di licenziare è contraria alla meritocrazia. Un lavoro non lo fa chi è più bravo, ma chi “lo faceva ieri”. Il che va visto anche dal punto di vista di chi cerca lavoro, e da quello dell’efficienza del sistema totale. È una considerazione forse “estrema”, ma spinge a qualche riflessione.
- Più che tutelare il lavoro nel senso di “impedire il licenziamento”, non sarebbe meglio favorire l’occupazione nel senso di “ricollocare velocemente” chi fuoriesce da un’azienda?
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