Sono molte le critiche alla cosiddetta spending review effettuata dal Governo Monti: la scuola dovrebbe essere preservata dai tagli, la sanità pure, la giustizia ha già poche risorse così come è. Anche i tagli alle province incontrano resistenze perché “rischiano di aumentare la distanza dei cittadini dalle istituzioni”.
Tutte argomentazioni che hanno un certo fondamento, ma la domanda che a questo punto viene da porsi è: quali tagli dovrebbero essere fatti, allora? Non basta lamentarsi, serve proporre alternative.
A questo si aggiunge che tanti sembrano dimenticare che la premessa è che non ci sono soldi, per cui soluzioni che propongono, di fatto, di “investire a pioggia” dimostrano che non si è colto il problema.
Le alternative devono essere concrete, perché è diventato perfino noioso sentire ripetere “dei tagli ai costi della politica”, e sentire “bisognerebbe diminuire il numero dei parlamentari e/o il loro stipendio”. A livello simbolico, è una cosa che può avere un significato, ma in concreto è ingenuo (eufemisticamente parlando) pensare che questo porterebbe grossi risparmi.
Ci sembra interessante riportare un grafico interattivo da The Guardian, che è utile per rendersi finalmente conto di come sia suddivisa la spesa pubblica italiana. Le voci di spesa più massicce riguardano pensioni e sanità, seguite dall’amministrazione generale (in cui, in una frazione, rientrano anche i “costi della politica”), e dalla scuola.
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Beh, io sostengo da tempo che sia assolutamente necessario ridurre molti stipendi e pensioni pubbliche, che soprattutto in queste condizioni sono scandalosi. Quando si sentono emolumenti da 80/100.000 euro all’anno, fino ad oltre i 300.000, c’è di che vergognarsi. In generale, un taglio generalizzato del 10/15% degli stipendi/pensioni pubblici al di sopra dei 40.000 euro lordi, e del 20/25% oltre i 100.000 euro.