Sono in molti a dare alla globalizzazione la colpa delle difficoltà economiche di questi mesi. Il tema della globalizzazione però è spesso affrontato in modo quantomeno parziale, spesso scegliendo di considerare solo una parte del problema, quella che porta alle conclusioni che si vogliono dimostrare. Indubbiamente, le interconnessioni attuali sono difficili da gestire (soprattutto con mezzi e strumenti pensati con una logica diversa), ma la soluzione non può essere, come qualcuno vorrebbe, un “isolamento economico”. E questo non per scelte o convinzioni politiche di sorta, ma semplicemente perché il presupposto di un “isolamento economico” è quella di un'”autosufficienza economica”.
Prendiamo il tema della “concorrenza globale”: non si può preoccuparsi del fatto che le aziende straniere fanno concorrenza alle aziende locali, spesso riuscendo a proporre prodotti a prezzo minore, se non si tiene anche conto del fatto che in base allo stesso meccanismo permettono ai consumatori locali di risparmiare, proprio per la loro capacità di proporre prodotti a basso costo.
Quando si parla di “isolare” economicamente un territorio, allo scopo di “proteggerlo” dalla globalizzazione economica, spesso non si fanno gli adeguati conti con il problema della sostenibilità economica: che, è bene sottolineare, non è “un qualcosa in più”, ma è la regola zero dell’economia.
Il corollario, applicato alla globalizzazione, è che se si vuole isolare un territorio (attraverso dazi, limiti all’import o all’export, ecc.) questo deve essere economicamente autosufficiente, altrimenti si causano più danni che benefici.
Spiegato in modo molto semplice: se io sono un operaio/impiegato/dirigente/proprietario di un’azienda italiana che produce vestiti/elettrodomestici/ecc. “pretendo” una certa retribuzione. Quando vado a comprare un vestito/elettrodomestico/ecc. “pretendo” un certo prezzo. Ora, le due “pretese” devono essere compatibili, cioè la retribuzione (a scapito di equivoci, intesa in senso ampio: consideriamo anche il profitto dell’azienda, non certamente solo gli stipendi dei dipendenti) deve essere tale da consentire un livello dei prezzi per l’acquirente accettabile, e viceversa il prezzo che l’acquirente è disposto a pagare deve consentire un livello delle retribuzioni accettabile.
L’impressione è che in Italia si sia ben lontani da un equilibrio di questo tipo: in altre parole, vorremmo godere dei vantaggi dell'”isolamento” al momento di vendere, e della globalizzazione al momento di comprare. In una situazione del genere, è evidente che il problema di fondo non è tanto la globalizzazione, quanto piuttosto che abbiamo vissuto finora oltre i nostri mezzi.
E qui entrerebbe in gioco un secondo aspetto importante, quello della qualità (finora abbiamo parlato solo del prezzo). Con una frase, si potrebbe dire che “il problema della globalizzazione non è il se, ma il come“: agli acquirenti/consumatori vanno dati gli strumenti e le informazioni per valutare e comprendere le (eventuali) differenze tra un prodotto e l’altro. E di conseguenza, dovrebbero essere incentivate le aziende a “produrre innovazione” (cosa che avverrebbe quasi automaticamente con un consumatore più attento), anziché a competere su prodotti “a basso valore aggiunto”. Chiaramente, l’innovazione ha un effetto collaterale importante: il mettere a repentaglio lo status quo, che in Italia è per molti la cosa più importante da proteggere.
Banche e Risparmio [http://www.banknoise.com]
Premesso che non ho basi e studi di economia, ho la sensazione che fra il costo di produzione e il prezzo del prodotto ci siano dei grosse perdite “parassite”. Personalmente continuo a credere che non è il mercato a fare il prezzo.
Roberto D.C.
Premesso che non ho basi e studi di economia, ho la sensazione che fra il costo di produzione e il prezzo del prodotto ci siano dei grosse perdite “parassite”. Personalmente continuo a credere che non è il mercato a fare il prezzo.
Roberto D.C.