L’idea della “Google Tax” può essere buona, di per sé: chi genera profitti in Italia deve essere tassato secondo le regole italiane. Ma come spesso capita nel nostro paese, l’applicazione pratica di un concetto in teoria condivisibile è fatta in modo pessimo, con soluzioni che sono peggiori del male.
Il problema centrale è che la legge, per tassare Google ed Amazon, va a vietare di acquistare beni o servizi online da chi non è titolare di una partita IVA italiana. Un divieto che non si applicherà certo solo alle multinazionali, ma anche e soprattutto agli italiani. C’è un libro che sulla versione italiana di Amazon non trovate ma c’è nello store americano? Se lo comprate commettete un reato. Giusto per fare l’esempio più facile e comprensibile.
Il secondo problema è a chi si applica l’obbligo: la norma parla di “siti accessibili dall’Italia”, ma pe rfare un esempio anche amazon.fr è accessibile dall’Italia. O l’intento è che agli Italiani venga vietato di visitare siti stranieri non autorizzati?
Terzo e forse anche più importante: cosa fa pensare che norme analoghe non vengano applicate dall’estero verso le aziende italiane? Alla faccia dell'”agenda digitale” che doveva spingere le PMI ad utilizzare la rete per proporre anche all’estero i propri servizi e prodotti, specie le eccellenze del Made in Italy. L’internazionalizzazione diventerebbe ingestibile per le realtà medio piccole.
Ultimo, ma non ultimo: più di qualcuno ha osservato che Google paga le tasse in Irlanda per un motivo ben specifico, e cioè che l’Irlanda, all’interno dell’Unione Europea, è stata incoraggiata ad attuare politiche fiscali “leggere” per attirare investimenti in quanto area economicamente svantaggiata. Sicuramente è un fatto che può (e deve) essere ridiscusso oggi con la crisi economica. Ma allo stato attuale è esattamente paragonabile alle agevolazioni fiscali per gli investimenti nel sud italia, che allora a questo punto dovrebbero essere eliminate per lo stesso principio.