Armando Carcaterra di Anima Sgr approfondisce il “come mai” sembra che i mercati “attacchino” in nostro Paese, e su quali comunque siano le differenze tra l’Italia di oggi e l’Italia del 1996, che riuscì ad entrare nell’Euro.
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Sembra che adesso tocchi all’Italia avvertire il morso della crisi europea. Come è successo?
Per oltre un anno l’Italia era stata preservata dalla crisi e tutti da tempo ne attribuivano il merito alla politica di moderato ma costante rigore perseguita dal Ministro dell’Economia. Poi, venerdì 8 luglio 2011, i primi attacchi contro i titoli italiani. La manovra destinata a portare il bilancio italiano in pareggio entro i prossimi 3 anni è stata approvata immediatamente, con una reazione del mondo politico esemplare. Tuttavia i mercati non si sono calmati.
L’apparente inefficacia della manovra segnala che il problema è più ampio. E forse anche diverso.
Perché allora i mercati “attaccano” l’Italia?
In generale i mercati “attaccano” ovunque individuino un’incoerenza. Da un anno – incalzati dalla Germania – i governi europei insistono esclusivamente sul rigore di bilancio come unica medicina: gli evidenti insuccessi insinuano il dubbio che la medicina sia sbagliata (o insufficiente).
È una questione aritmetica. Per diminuire il debito non basta aumentare le tasse e tagliare pensioni e stipendi pubblici. Bisogna anche che il mercato reagisca riducendo i tassi di interesse.
Il debito cresce, infatti, per effetto di due elementi complementari, ma diversi. Il deficit “primario”, ovvero la differenza tra entrate fiscali e spese pubbliche diverse dagli interessi (investimenti pubblici, pensioni, salari pubblici, ecc.); e il deficit “secondario”, ovvero la spesa per interessi. Aumentare le tasse e tagliare la spesa pubblica abbassa il deficit “primario”, rimangono però le spese da interessi. Per fermare la crescita del debito è necessario arrivare ad un surplus “primario” grande almeno quanto la spesa per interessi.
Per entrare nell’euro, l’Italia si è già trovata a dover affrontare aggiustamenti fiscali di grandi dimensioni. Il debito italiano era già allora agli stessi livelli di oggi (circa 120% del Pil). Secondo i parametri di Maastricht entrare nell’euro richiedeva un disavanzo non superiore al 3% del Pil, ma nel 1996 -a tre soli anni dalla scadenza- il disavanzo italiano era al 7%. I mercati erano però convinti che, se l’Italia fosse entrata nell’euro, i suoi tassi di interesse sarebbero poi scesi molto rapidamente, fino ad allinearsi a quelli tedeschi. Il debito italiano avrebbe ereditato quindi la “credibilità” di quello tedesco. L’euro era infatti percepito come la costituzione, attorno ai paesi ad altro debito come l’Italia, di una cintura di “sicurezza”.
Il Governo italiano di allora accettò la sfida e, con una manovra fiscale molto coraggiosa e aggressiva, ampliò enormemente l’avanzo “primario”, rientrando nei parametri di Maastricht. La riduzione dei tassi avrebbe poi reso sempre meno necessario il rigore fiscale e incoraggiato la crescita del Pil.
Quella scommessa fu vinta e da allora i tassi italiani, francesi, spagnoli e greci sono sempre rimasti quasi “incollati” a quelli tedeschi.
Che cosa è successo quindi a partire dal 2009?
La crisi greca (e poi irlandese e portoghese) ha cambiato radicalmente la prospettiva, rivelando ai mercati che l’Euro-area non è affatto un sistema finanziario integrato; che l’architettura istituzionale europea non prevede meccanismi sovranazionali di “solidarietà” o di “salvataggio” tra paesi; che la governance è ostaggio degli umori nazionalistici di alcuni paesi (in primo luogo tedeschi) e che i governi non sanno trovare una via comune per fronteggiare la crisi neppure di piccoli paesi. I mercati hanno scoperto cioè che l’euro è un “gigante con i piedi di argilla”.
Questa Euroarea frammentata e incerta appare ai mercati un pericoloso epicentro di rischi sistemici, a fronte dei quali richiedere tassi sempre più alti. Il progetto Euro, che riuscì a vincere la fiducia dei mercati nel periodo dal ’96 al ’99, oggi non è più credibile.
L’Italia ha oggi un bilancio pubblico già in pareggio, se si escludono le spese per interessi. Queste però rappresentano il 4,5% del Pil. Se le prospettive dei tassi di interesse fossero decrescenti, le politiche fiscali restrittive adottate sarebbero credibili.
Anche per l’Italia, come per gli altri paesi, il rigore quindi non basta: la vera soluzione sta nel restaurare in fretta la credibilità perduta dell’euro.
Ma io non capisco delle volte se qualcuno ci vuole fare fessi a tutti o è veramente come dicono..
Ma fino a 2 anni fa pareva che l’italia avesse superato la crisi in modo dignitoso, ed ora che è cambiato?
Secondo me i poteri forti ci vogliono manipolare con l’informazione..