Economia e Finanza

Imprese italiane troppo dipendenti dai presiti?

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Il Vice Direttore Generale della Banca d’Italia  Giovanni Carosio ha avuto un’audizione alla Commissione Finanze della Camera, nell’ambito di una indagine conoscitiva sui mercati degli strumenti finanziari. Uno dei punti interessanti, dei quali val la pena sottolineare qualche passaggio, riguarda la ridotta capitalizzazione di borsa delle imprese italiane, che porta ad un elevato ricorso all’indebitamento (invece che alla raccolta di capitali “di rischio”) e quindi ad una sorta di dipendenza dal credito. Va detto che questo è dovuto anche ad una cultura imprenditoriale che non ama l’idea di condividere la proprietà ed il controllo della propria “creatura”, che è quello che avviene quando si quota un’impresa.


Alla fine del 2010 la capitalizzazione di borsa delle imprese non finanziarie in Italia era pari al 19 per cento del prodotto interno lordo, a fronte del 38 per cento in Germania, del 59 in Francia e del 95 per cento nel Regno Unito. Il numero di imprese italiane quotate, includendo  il settore finanziario, è pari a 291; un decennio fa erano 276.   Il ricorso molto circoscritto al mercato dei capitali si riflette nella dipendenza dal credito  quale fonte quasi esclusiva di finanza esterna delle imprese italiane, la cui struttura  finanziaria si caratterizza anche per livelli di indebitamento e quota di passività a breve termine relativamente elevati nel confronto internazionale.
La dipendenza dal credito bancario delle imprese italiane risulta particolarmente evidente nel  confronto con i paesi anglosassoni, dove i  mercati finanziari sono storicamente più sviluppati. Nel 2010 la quota del finanziamento bancario sul totale dei debiti finanziari era pari per le imprese italiane al 67 per cento, mentre la quota del debito finanziario a breve era  il 37 per cento. Nel Regno Unito questi valori erano pari, rispettivamente, al 27 e al 43; negli  Stati Uniti al 33 e al 26. Di contro il peso  delle obbligazioni sui debiti finanziari delle  imprese italiane risulta estremamente contenuto (l’8 per cento contro il 24 del Regno Unito e  il 44 degli Stati Uniti). Le differenze, sebbene meno marcate, si ripropongono anche nel  confronto con le principali economie dell’Europa continentale.

Come accennato, ci sono fattori “culturali” che spingono a questa situazione. Ma ci sono anche cause di altro tipo:

La seconda area riguarda i costi diretti e indiretti di accesso ai mercati dei capitali. Tra i costi  diretti figurano quelli che le imprese devono sostenere per la quotazione e per il  mantenimento dell’iscrizione al listino e le commissioni richieste dagli intermediari che  offrono i servizi necessari alla quotazione; nei mercati regolamentati le commissioni dovute  alle autorità di vigilanza e i costi di compliance con la normativa. La complessa articolazione di questi oneri rende particolarmente difficili i confronti tra paesi. Sulla base dell’evidenza e delle analisi disponibili, già discusse in dettaglio nel corso  di questa Indagine, vi sono sì differenze nelle singole voci di costo tra i diversi paesi, ma nel complesso non emerge una situazione di particolare svantaggio per le imprese italiane che intendono quotarsi.
Tra i costi indiretti vi sono quelli legati alla trasparenza. La disponibilità di informazioni dettagliate, comparabili e credibili è un requisito essenziale per gli investitori. La produzione e la diffusione delle informazioni può essere  particolarmente onerosa per le imprese più piccole e per quelle nelle fasi iniziali del ciclo di crescita. Per questa ragione sono stati  istituiti segmenti di mercato con oneri informativi più limitati. Nel 2007 è stato istituito il  “mercato alternativo del capitale” (MAC), presso il quale sono quotate 10 società. Nel dicembre 2008 ha preso avvio l’AIM-Italia, istituito sul modello dell’Alternative Investment  Market inglese sul quale sono quotate 11 società. Il numero ancora contenuto di quotazioni  nei listini del MAC e dell’AIM-Italia riflette le difficoltà tipiche che questa tipologia di  mercati incontra nelle fasi iniziali accentuate alla sfavorevole congiuntura reale e finanziaria  del periodo.
Il terzo insieme di fattori che limitano la crescita dei mercati dei capitali in Italia è la scarsa  appetibilità delle nostre imprese per gli investitori. La quotazione in borsa presenta vantaggi  in termini di costo della raccolta soprattutto per quelle imprese che offrono agli investitori  prospettive di rendimenti elevati e profili di rischio contenuti. L’accesso al mercato dei  capitali è spesso il punto di arrivo di un processo di crescita e consolidamento della struttura  finanziaria. Analisi comparate condotte su dati di bilancio mostrano che le imprese italiane, soprattutto di medie e grandi dimensioni,  hanno una redditività operativa mediamente  inferiore a quella degli altri paesi; in presenza  di un debito più elevato, il peso degli oneri  finanziari contribuisce a ridurre considerevolmente anche la redditività netta. Ciò circoscrive il bacino di imprese per le quali può risultare conveniente la quotazione.

Due semplici riflessioni su questi punti: la prima è che uno dei problemi della trasparenza è che …costringe ad essere trasparenti. Che vuol dire non solo lo sforzo di documentare ciò che si fa, ma anche dire quello che si fa e fare quello che si dice. Niente “finanza creativa”, insomma. L’altra osservazione è che 10 aziende quotate al MAC e 11 all’AIM sembrano (e sono) poche: ma il numero totale di settore quotate in Italia è però basso. Come si diceva più sopra, in Italia sono quotate 291 aziende. Per confronto, le aziende quotate a Londra sul mercato principale sono 1.114, e 1.222 sull’AIM.
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