Unicredit ha presentato qualche giorno fa i risultati del Rapporto Corporate UniCredit, che ha analizzato lo “stato” delle imprese europee ed italiane (sono state coinvolte oltre 15.000 imprese a livello europeo di cui 3.000 italiane). Il quadro che ne viene fuori è abbastanza interessante, dato che “Le aziende italiane, nel confronto europeo, mostrano alcuni chiari punti di forza, grazie alla propensione all’internazionalizzazione e all’innovazione, anche se esiste un potenziale ancora non sfruttato”.
[…] sono due gli aspetti “di forza” del tessuto manifatturiero che emergono con decisione:
• l’attività internazionale: le imprese italiane mostrano diffuse competenze, attitudine e capacità per essere presenti sui mercati internazionali. Il 67% delle imprese manifatturiere intervistate ha esportato parte dei propri prodotti (nel corso del 2008, prima della crisi) ottenendo da questa attività il 34,5% del proprio fatturato.
• la sensibilità alla tematica dell’innovazione: le imprese italiane, pur in modo poco codificato – per esempio con un numero di occupati dedicati ad attività di ricerca e sviluppo inferiore a quello delle imprese degli altri paesi – si dicono molto attive nell’introduzione di innovazioni di prodotto o processo.
I limiti dunque appaiono in un certo senso più “metodologici” che di mentalità, come spesso si è ripetuto. La questione, a nostro parere, origina anche dalla ridotta dimensione media delle imprese, che non consente di disporre di tutte le risorse che sarebbero necessarie per affrontare in modo compiuto tematiche che sono oggettivamente complesse. Non parliamo solo di risorse finanziarie, ma anche di competenze: le stesse persone non possono saper fare tutto. Questo unito anche alla tendenza a voler gestire tutto internamente: la piccola dimensione non è necessariamente un ostacolo, se si riesce a “esternalizzare” esternamente alcune fasi considerate importanti ma su cui non si dispongono di competenze approfondite dirette.
Secondo noi questa spiegazione è compatibile con quelle che sono le “criticità” che emergono anche dalla ricerca, ad esempio il fatto che le aziende siano sì internazionalizzate, ma con “raggio d’azione” internazionale geograficamente “corto” (ci si muove solo nei paesi che si conosce, o con l’abitudine a “cercare fornitori” più che aprire nuovi mercati). Altro punto è che le imprese sono sì spesso impegnate nello sviluppo di prodotti nuovi, ma che sono qualcosa di nuovo “per l’azienda” più che qualcosa di nuovo “per il mercato”, perché spesso mancano le competenze (e le collaborazioni con centri di ricerca) per fare qualcosa di “realmente” innovativo.
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