Un nuovo appuntamento con il commento di Anima SGR. Armando Carcaterra esamina l’aumento dei tassi apportato dalla BCE. In estrema sintesi, l’idea (che condividiamo) è che non si tratta di una rivoluzione nella politica monetaria (anche perché, come abbiamo sottolineato più volte, l’aumento dei tassi era ampiamente previsto), ma piuttosto di un inizio di “normalizzazione”, di uscita dall’emergenza.
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La BCE alza i tassi. È una svolta nella politica monetaria?
Da qualche mese i mercati si sono convinti che la fase di bassi tassi che ha consentito di assorbire l’urto della crisi finanziaria stesse volgendo al termine. Confermando le aspettative, la Banca centrale europea ha aumentato i tassi di riferimento, dall’1% all1,25%. Dubito che siamo alla vigilia di una svolta di politica monetaria.
Il lieve aumento dell’inflazione registrato nei primi messi di quest’anno è tutto attribuibile agli aumenti di prezzo delle materie prime importate (soprattutto petrolio, gas e beni alimentari), ma lo stato ancora anemico della domanda interna di gran parte dei paesi europei rende molto poco probabile che i maggiori prezzi delle materie prime si trasferiscano sui prezzi finali degli altri beni.
L’economia europea appare migliorare con molta gradualità e la disoccupazione rimane ancora altissima: ciò esclude che possa mettersi in moto la spirale prezzi-salari alimentata dagli shock petroliferi degli anni ’70.
L’euro forte tende infine a giocare a favore del controllo dei prezzi.
In questa situazione, anche il più ipocondriaco degli economisti farebbe fatica a considerare un’inflazione sotto il 2,5% una febbriciattola, men che meno una malattia.
Contro l’eventualità di una stretta monetaria gioca anche lo stato precario delle finanze pubbliche di Eurolandia e delle sue banche, i cui attivi sono pieni di titoli pubblici potenzialmente a rischio.
Nelle scorse settimane, le agenzie di rating hanno abbassato senza pietà le valutazioni di Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda. Le misure di rigore fiscale e salariale volute in sede europea dalla Germania e diligentemente adottate da questi paesi, come avevamo anticipato all’epoca, da sole non bastano a risolvere il problema del debito. Infatti i tagli fiscali da una parte riducono il deficit, ma dall’altra deprimono la crescita e le entrate fiscali, che servono per ripagare il debito.
La via di uscita è rappresentata da tassi molto più bassi e da una crescita molto più alta.
Perché allora la BCE alza i tassi di riferimento?
La spiegazione sta nel fatto che l’arte del central banker non consiste soltanto nel dosare gli impulsi monetari all’economia: l’arte del central banker consiste soprattutto nell’orientare le aspettative di mercato.
L’aumento del tasso di riferimento ha cioè oggi un significato prevalentemente segnaletico. Con esso la Bce intende informare i mercati che le condizioni straordinarie prodotte dalla crisi del 2007-2009, che avevano giustificato tassi minimi, devono essere gradualmente riaccompagnate entro gli argini della normalità. Quando viene meno l’emergenza, mantenere tassi all’1% (che al netto dell’inflazione sono addirittura negativi) rischia infatti solo di alimentare comportamenti speculativi e nuovi squilibri e non più fornire ossigeno ad un’economia in apnea.
Quella che abbiamo di fronte non è quindi una vera stretta monetaria. Non è la somministrazione di ulteriori antibiotici di fronte ad un’infezione, è solo una terapia di riabilitazione dopo un forte trauma; è una salutare disintossicazione dopo un eccesso di farmaci.
È un buon segnale per il futuro, non una cattiva notizia.