Come certamente saprete, ieri il parlamento UE ha approvato una risolzione che chiede alla Gran Bretagna di attivare il prima possibile l’Articolo 50, cioè la richiesta di “uscita” dall’Unione Europea, approvata a larga maggioranza, con contrari gruppi quali quello degli “autonomisti” inglesi ma anche il Movimento 5 Stelle.
Faccio una premessa, per chi non passa spesso da queste pagine: non mi piace parlare di politica, perché è un argomento che finisce spesso per creare solamente polemiche sterili, ma data la situazione qualche parola è inevitabile.
Quindi torniamo all’argomento. A parte il gesto simbolico del votare contro questa risoluzione, mi sento di dire chiaro e tondo che se qualcuno pensa davvero che sia una buona idea posticipare l’inizio dei collqui per l’uscita è uno sciocco o un ignorante. Nel senso letterale dei termini.
Perché quantomeno di ignoranti si direbbe che ce ne siano molti, quando si parla del “leave”. Una cosa che sembra generare estrema confusione sono i due anni previsti dall’Articolo 50: non vuol dire assolutamente che chi esce rimane a far parte dell’Unione Europea per altri due anni, come una specie di preavviso simile a quando si danno le dimissioni o si recede da un contratto. I due anni sono il tempo massimo previsto per negoziare nuovi accordi bilaterali. E nel negoziato si può benissimo decidere che tali accordi entrino in vigore successivamente.
Il negoziato potrebbe anche, per assurdo, concordare che per tutto questo secolo la Gran Bretagna continuerà ad essere membro della UE. A parte i casi lilmite, comunque, è chiaro che quanto prima si delinea un percorso, maggiori sono i vantaggi dato che si elimina l’incertezza, che potrebbe affondare nel frattempo l’economia britannica innanzi tutto (perché è vero che si tratta di un’economia forte, ma che è forte innanzi tutto per la sua dimensione internazionale che in questo momento è decisamente incerta).
Perché quindi la Gran Bretagna non vuole avviare i negoziati? La spiagazione appare evidente: perché non ha la più pallida idea di dove vuole andare a parare. In UK si parla molto di come potrebbe essere il rapporto con la UE d’ora in poi, ipotizzando modelli che si rifanno a Norvegia, Svizzera, Canada. Ma chi ha promosso l’uscita della Gran Bretagna dalla UE non si è posto il problema. E qui arriviamo a parlare di sciocchi: non serve a niente dire che la situazione attuale non va bene, se non si propongono anche alternative concrete.
Quella sul “dopo” doveva essere una discussione fatta “prima”, invece prima ci si è solo concentrati sul cercare di conquistare voti, spesso con affermazioni clamorosamente false (che ora i promotori del leave devono rimangiarsi, come la storia del fatto che l’uscita dalla UE permetterebbe alla GB di risparmiare 340 milioni di sterline alla settimana: una cifra che effettivamente viene data alle casse UE, ma che torna indietro sotto forma di servizi e contributi che comunque devono essere erogati anche dopo).
Questa mancanza di idee alternative è quello che rende il referendum poco democratico, perché la premessa della partecipazione democratica è che la gente sappia per cosa sta votando. Enrico Mentana scriveva del fatto che i referendum devono essere rispettati, come espressione di volontà popolare, e domandava come sarebbe stato se in Italia dopo il referendum tra Monarchia e Repubblica i perdenti si fossero messi a raccogliere firme per rifare il referendum.
Solo che in quel caso c’era una scelta: tra Monarchia e Repubblica, appunto. In questo caso, è come se il referendum fosse stato “Volete che vada via il Re?”, senza nemmeno ipotizzare se dopo ci sarebbe stata una repubblica, l’anarchia, la frantumazione in città stato o chissà cos’altro. E in quel caso, neppure quello sarebbe stato un referendum.