Jesse Krimes è un nome che sembra inventato, per un artista che deve parte della sua fama al fatto di essere in carcere. Ma quello è il suo nome da quando e nato.
Nel 2009 Krimes è stato condannato a 70 mesi di reclusione per possesso di cocaina finalizzata allo spaccio, dopo una lunga battaglia legale in cui ha sostenuto che le accuse erano infondate. Dopo la sentenza, mentre il giudice aveva raccomandato che fosse messo in una prigione di minima sicurezza vicino alla sua famiglia in New Jersey, il Federal Bureau of Prison ha deciso di metterlo in una struttura di media sicurezza lontano da casa.
Secondo Jesse, si tratta di una dimostrazione che il sistema carcerario americano è progettato per disumanizzare le persone, non per recuperarle o semplicemente punirle. Un’opinione peraltro non solo sua, con altri che sostengono che le prigioni americane trasformano i carcerati in veri criminali, che una volta usciti anziché tornare sulla retta via si trasformano in criminali incalliti.
Jesse però ha trovato un modo diverso di reagire: attraverso l’arte. “Il sistema è progettato per trasformarti in un criminale e farti conformare. Io ho battuto il sistema”, commenta.
Jesse non aveva grandi mezzi a sua disposizione, ma solo oggetti banali come vecchi quotidiani, lenzuoli e gel per capelli. Ma con solo questi è riuscito a creare un’opera che non poteva passare inosservate: un grande murales, creati trasferendo le foto dei giornali sui tessuti dei lenzuoli usando il gel come agente di trasferimento.
E’ stato necessario qualche anno per mettere a punto la tecnica, ma alla fine ha iniziato a creare la sua opera: un lavoro difficile, perché lavorava su un lenzuolo per volta e quando lo aveva completato lo spediva a casa: di conseguenza non ha visto l’insieme (ora intitolato ‘Apokaluptein:16389067’, con riferimento al numero di matricola che aveva l’uomo in prigione) finché non ha finito di scontare la condanna qualche mese fa.
Della sua opera racconta: “E’ stato il mio tentativo di portare la realtà dentro la prigione, e poi è diventata la mia fuga, quando inviavo un pezzo a casa sperando che potesse essere la mia voce all’esterno nel caso che qualcosa di brutto mi succedesse e non tornassi a casa”.