Il redditest, lo strumento di misurazione della congruità fiscale predisposto dall’Agenzia dell’Entrate, è finito nuovamente “sotto accusa”. Questa volta non si tratta di accuse da “Grande Fratello”, di essere uno strumento che viola la privacy dei cittadini in modo sistematico, ma piuttosto il fatto di essere uno strumento controproducente.
Il punto è che è uno strumento che parte dal presupposto che la gente evada il fisco. Il che può essere anche un fatto vero, ma quando uno strumento parte da un presupposto del genere, spinge di fatto anche la gente ad adattarsi al presupposto.
Il nodo centrale è il concetto stesso di “congruità”: se uno è onesto e dichiara tutto al fisco, allora il redditest non ha senso, dato che (congruo o non conguro) il reddito è quello. L’analisi della congruità ha senso esclusivamente se uno evade il fisco, per capire se sta evadendo troppo. In pratica il redditest è uno strumento dell’Agenzia delle Entrate a supporto degli evasori fiscali.
Inoltre, il redditest si presta ad essere usato anche in modo inverso, e cioè uno lo potrebbe usare per capire se sta evadendo troppo poco. Cioè, date le spese per fisse, può utilizzare lo strumento per capire qual è il reddito minimo da dichiarare per non destare sospetti, disincentivando una dichiarazione del reddito reale: se dichiarando un reddito di 40.000 euro anziché di 50.000 uno risulta comunque “congruo”, perché dichiarare di più, e pagare più tasse?
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