Una delle criticità maggiori emerse nel corso della crisi economica è che ci sono (specie negli USA) divere banche “troppo grandi per fallire”, nel senso che un loro fallimento avrebbe conseguenze particolarmente gravi sul sistema finanziario. Questa situazione genera alcune conseguenze non trascurabili: in primo, queste banche tendono ad approfittare della situazione, e proprio grazie alla consapevolezza che se saranno in grossa difficoltà “arriverà una mano” tendono ad assumersi rischi maggiori.In secondo luogo, soggetti troppo grandi distorcono il mercato, che finisce per somigliare di più ad un oligopolio, e a funzionare in maniera meno trasparente.
Inoltre, le banche “troppo grandi per fallire” sono anche troppo grandi per essere salvate, dato che i costi di un salvataggio spesso sarebbero fuori dalle capacità di spesa di un singolo Paese.
Una soluzione che era stata proposta in passato è quella di limitare le dimensioni delle banche, costringendo le banche più grandi a “smembrarsi” (come era stato fatto con la Standard Oil nel 1911). L’idea sembrava essere stata messa un po’ da parte, ma ultimamente sta raccogliendo molti consensi anche da parte dello stesso settore finanziario: il numero di economisti e di finanzieri che appoggiano l’idea si allarga di continuo e comprende, giusto per citare qualche nome, gli ex-CEO di Citi (Sandy Weill e John Reed, più l’ex presidente Richard Parsons), Merryll Lynch (David Komansky) e Morgan Stanley (Philip Purcell), e diversi premi Nobel per l’economia (Joseph Stiglitz, Ed Prescott e Paul Krugman).
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