Economia e Finanza

L’Italia in ritardo sul fronte del “capitale umano”

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È stato ripetuto fino alla noia il fatto che l’Italia dovrebbe puntare sulla produzione di prodotti / servizi “a elevato valore aggiunto”, che siano in grado di proporsi sul mercato senza dover competere sul prezzo — una strada che non può che vedere, ad oggi, i prodotti italiani perdenti.
Nei giorni scorsi, il neo governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, è intervenuto al XXX Congresso nazionale dell’AIMMF, sul tema della conoscenza, e di come questa sia strategica per competere, perché un migliore “capitale umano” permette di migliorare la qualità del lavoro, aumentare l’efficienza dei processi produttivi, facilitare l’adozione e lo sviluppo di tecniche e prodotti nuovi.
Un aspetto importante è che le conoscenze oggi non si acquisiscono più solamente a scuola, per poi applicarle in modo ripetitivo durante l’intera vita lavorativa, ma è indispensabile un apprendimento continuo per far fronte da un lato all’affermarsi di nuove tecnologie, dall’altro per affrontare scenari che sono sempre meno routinari. A nostro parere, sarebbe infatti opportuno intervenire per supportare la formazione continua dei lavoratori (che purtroppo è spesso considerata una perdita di tempo da parte del lavoratore, e ore sottratte ad attività redditizie da parte del datore di lavoro), ancor prima che la stabilità del posto di lavoro, non fosse altro perché un lavoratore con competenze aggiornate e specialistiche può proporsi più efficacemente sul mercato del lavoro di uno con competenze generiche.
L’Italia però ha un preoccupante gap rispetto ai Paesi avanzati, sul fronte del capitale umano, che dovrebbe spingere a qualche riflessione:


La bassa dotazione di capitale umano del nostro paese nel confronto internazionale è questione antica. Ai tempi dell’Unificazione, la popolazione adulta italiana aveva in media meno di un anno di istruzione contro 4 o 5 anni in Francia, in Germania, nel Regno Unito, negli Stati Uniti. […] all’inizio del secolo scorso due storici britannici, Bolton King e Thomas Okey, osservavano in un volume intitolato Italy Today che “l’istruzione è la pagina più cupa della storia sociale italiana, una pagina che narra di un cammino penoso, dell’indifferenza nazionale nei confronti di un bisogno primario, di un’odierna arretratezza, e che reca all’Italia (dopo il Portogallo) il triste primato dell’analfabetismo nell’Europa Occidentale”.
[…]
Il divario, però, è certamente preoccupante quando si guarda all’istruzione universitaria. Qui l’Italia pare fare molta fatica a tenere il passo degli altri paesi avanzati: sempre nel 2009, la quota di laureati nella fascia d’età 25-64 anni era di poco inferiore al 15 per cento, pari alla metà di quella media dei paesi dell’OCSE; tra i più giovani, con età tra i 25 e i 34 anni, superava il 20 per cento ma si confrontava con una media OCSE pari a circa il 37 per cento.
Le misurazioni dirette della capacità di comprendere un testo, di compiere operazioni logico-matematiche e di combinare informazioni per risolvere problemi più o meno complessi, condotte negli ultimi vent’anni, ci restituiscono un quadro altrettanto preoccupante. Le competenze degli studenti italiani, che pure risultano in linea, se non superiori, a quelle medie osservate nei paesi avanzati alla fine del ciclo di istruzione primaria, arretrano in termini relativi nelle fasi successive dell’istruzione formale. Per i quindicenni, il divario misurabile sulla base dell’indagine PISA condotta dall’OCSE corrispondeva nel 2006 a un ritardo di circa un anno di istruzione formale; benché ridotto tra il 2006 e il 2009, resta significativo. Riflette distanze ampie tra le aree del Paese: i risultati sono lievemente superiori alla media OCSE nel Nord, drammaticamente inferiori al Sud.
Di questi divari, della loro distribuzione geografica, delle differenze prevalenti tra scuole diverse anziché all’interno di una stessa scuola si possono dare varie interpretazioni. Resta il fatto che un paese come il nostro, povero di risorse materiali e ormai in ritardo su diversi fronti, dovrebbe mirare a investire in “conoscenza” non “sotto” e neppure “sulla” ma “al di sopra”  della media di altri paesi più dotati di risorse naturali.

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