In questi giorni le prime pagine e le pagine economiche sono concentrate sullo “scontro” tra la Fiat e la Fiom, sulle ben note ipotesi di modifiche contrattuali.
Eppure, questo “caso” non ci sembra è certo il più grave o il più rilevante per l’economia italiana o il suo futuro. Intendiamoci, non è che il benessere degli operai (categoria di cui abbiamo fatto parte anche noi) non ci stia a cuore, però — come abbiamo già scritto in passato — crediamo che l’ambizione non debba essere quella di fare “gli operai a vita”. Per qui il problema ci sembra piuttosto il fatto che manchino degli strumenti concreti per supportare la crescita professionale delle persone.
Inoltre, non possiamo pensare a quello che sostengono in molti, e cioè che “gli italiani non vogliono più fare gli operai“, come sottolinea anche chi rimarca la necessità di favorire l’immigrazione per “coprire” alcuni ruoli lavorativi. Per cui, come spunto di riflessione, ci torna in mente l’interrogativo che ci confidava un imprenditore qualche tempo fa, e cioè “fino a che punto ha senso sforzarsi di non spostare le fabbriche italiane all’estero, se poi per farle funzionare qua bisogna chiamare gente dall’estero?“.
La nostra impressione è che la questione del manifatturiero in Italia, sia sicuramente rilevante, ma non strategica per il futuro del “sistema Italia”. Dove quello che manca è la capacità di creare “valore aggiunto” (a titolo di confronto di “risonanza mediatica” pensate alla scarsa attenzione al rischio di chiusura, l’anno scorso, del centro ricerche di Glaxo a Verona, che occupava 600 ricercatori). Non serve tanto “lavorare di più”, ma “lavorare meglio”. Finché ci si ostina a puntare su prodotti “low cost“, o su mercati ormai saturi (come è anche quello dell’auto), è chiaro che il risultato non può essere che quello di confrontarsi con una competizione basata sui costi, anche del lavoro.
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