Economia e Finanza

I default degli Stati sono scelte volontarie?

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Nei giorni scorsi Ignazio Visco (Vice Direttore Generale della Banca d’Italia) è intervenuto in occasione della “Lectio Marco Minghetti 2010”  all’Istituto Bruno Leoni, offrendo alcuni spunti che ci sembrano interessanti (e che qui riportiamo, aggiungendo alcune evidenziazioni) sul tema del default degli Stati sovrani. Il testo completo dell’intervento lo potete trovare qui.


Anziché concentrarsi sulla consueta distinzione tra mancanza di liquidità e insolvenza che può contraddistinguere i casi di insostenibilità del debito, la lezione di Balcerowicz [N.d.R: economista polacco, ex presidente della Banca Centrale polacca ed ex vice primo-ministro] evidenzia il fatto che è più probabile che il default di uno Stato sovrano derivi dalla mancanza di volontà, piuttosto che dall’incapacità, di ripagare un debito che si è accumulato nel corso del tempo. Si tratta di un punto di partenza decisamente ragionevole, giacché è estremamente probabile che, qualora le riforme strutturali o gli interventi macroeconomici necessari per riportare un paese in condizioni di solvibilità non siano attuati, ciò non sia dovuto all’impossibilità di agire in tal senso, bensì al fatto che tali riforme sono ritenute indesiderabili (nel senso che il debitore sovrano preferisce non assumersi per intero gli oneri degli interventi richiesti), oppure sono inattuabili dal punto di vista sociale e politico (nel senso che il governo potrebbe non essere in grado di approvare per via legislativa e mettere concretamente in atto il pacchetto di riforme). Indubbiamente, uno Stato è cosa diversa da una impresa. Laddove quest’ultima è obbligata a dichiarare fallimento qualora non disponga di risorse sufficienti a soddisfare i propri creditori, uno Stato può scegliere di non adempiere ai propri obblighi anche se, in via di principio, potrebbe sempre trovare il modo di onorare i propri debiti, tagliando la spesa pubblica e/o aumentando il gettito fiscale.
Per quanto concerne la desiderabilità di un default occorre, tuttavia, rilevare che – come ha recentemente sottolineato il Fondo Monetario Internazionale– tale strumento non costituisce un agevole sostituto di un doloroso intervento in ambito fiscale. Infatti, quando la posizione di partenza di un paese a rischio di default consiste in un disavanzo primario di bilancio, si rendono comunque necessarie misure tali da portare il saldo primario in attivo, in quanto dopo il default sarebbe probabilmente assai difficile per il paese in questione ottenere ulteriori prestiti. Questa, in effetti, potrebbe essere la situazione di diverse economie avanzate per le quali gli interessi sul debito non costituiscono la componente principale del deficit.
[…] Per giunta, la gran parte degli episodi di inadempienza agli obblighi di debitore in paesi particolarmente propensi al default si sono verificati a un livello di debito che oggi considereremmo relativamente moderato. Sul finire del 2001, ad esempio, quando l’Argentina dichiarò un default su gran parte del proprio debito, il rapporto debito pubblico-PIL era appena superiore al 50 per cento […] Viceversa, vi sono paesi in grado di sostenere livelli di indebitamento decisamente maggiori. Un esempio notevole è il Giappone, il cui debito pubblico ha recentemente raggiunto il livello del 220 per cento del PIL senza che ciò provocasse rilevanti tensioni nei mercati.
Svariati autori hanno sostenuto che il livello di intolleranza al debito dipende in ultima analisi dalla qualità delle istituzioni di un paese. In particolare, il fallimento sovrano rappresenta spesso l’esito di una lotta politica tra diversi gruppi di cittadini e ha una maggiore probabilità di verificarsi se i creditori interni sono politicamente deboli e il prezzo politico del disordine normalmente causato da un fallimento sovrano è ridotto
[…] Dovremmo renderci comunque conto che la debolezza della situazione delle finanze pubbliche non rappresenta l’unica origine delle tensioni relative al debito sovrano. Nel 2007 l’Irlanda e la Spagna hanno registrato un attivo di bilancio (pari rispettivamente allo 0,3 e all’1,9 per cento del PIL) con un rapporto debito-PIL relativamente basso (rispettivamente il 25 e il 36 per cento).

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