Il settore della calzatura in Italia è un caso esemplare di quella che è la condizione del Made in Italy, di cui è uno dei settori di punta: apprezzato per la qualità e lo stile, attualmente si trova a soffrire la congiuntura economica negativa (con pesanti ricadute anche sull’occupazione), che va ad aggravare uno scenario in cui la pressione competitiva di paesi emergenti si fa da tempo — inevitabilmente — sentire.
Ecco perché la ricerca svolta da Banca Monte dei Paschi di Siena, con i rapporti di Nomisma e di ANCI (Associazione Nazionale Calzaturifici Italiani), presentata alcuni giorni fa a Roma, è interessante anche come chiave di lettura “oltre” i distretti della calzatura.
La sintesi di quanto emerso è riassunta dalle dichiarazioni di Paolo Bruni, AD di Nomisma:
“In linea generale, solo a partire dal 2011 ci si attende un avvicinamento a quelli che erano i volumi di fatturato generati cinque anni fa dai distretti calzaturieri. Il quadro è tuttavia molto variegato: stimiamo che continueranno a crescere i distretti della Riviera del Brenta e di San Mauro Pascoli a cui si affiancheranno buone performance per il distretto della Valdinievole e soprattutto di Aversa. Secondo le nostre valutazioni permarranno, invece, delle difficoltà per i due distretti pugliesi di Casarano e Barletta, mentre per alcuni storici distretti come quello di Fermo-Macerata, che hanno visto contrarsi tra il 2007 ed il 2008 il proprio volume di affari di oltre il 20%, si stanno iniziando ad intravedere i segnali di una lenta ripresa”.
Due dati sul settore della calzatura, che emergono dai rapporti, aiutano ad inquadrare meglio lo scenario:
- L’Italia è il primo produttore di calzature nella Unione Europea, con una quota attorno al 40% sul totale quantità, e l’ottavo produttore mondiale. L’Italia detiene però la leadership nei prodotti di fascia alta e lusso.
- Le esportazioni rappresentano per il settore calzaturiero oltre l’80% del fatturato.
E’ chiaro che in ottica strategica (come peraltro viene evidenziato anche dai rapporti) l’esigenza è quella di puntare ai mercati emergenti — India e Cina in primis — dove il moltiplicarsi di “nuovi ricchi” spinge ad una crescita notevole della domanda di prodotti di lusso, nell’ambito del quale la produzione italiana può essere competitiva. Il puntare sui volumi “puri” è una scelta tendenzialmente perdente, dato che non è possibile puntare a competere su produzioni a contenuti tecnologici tendenzialmente bassi, dove il prezzo diventa un fattore di scelta primario per il consumatore, e su cui quindi il costo dei materiali e il costo del lavoro diventa un freno sostanziale alla competitività.
La questione dovrebbe essere quindi semplice: puntare su prodotti di “fascia alta”. Che però rimane spesso solo sulla carta: non solo perché le aziende non sempre ne hanno la capacità, ma perché più di qualche volta c’è chi cade in equivoci del tipo “c’è la crisi, non si può aiutare il lusso” , quando invece è quello che servirebbe per rilanciare l’industria italiana e l’occupazione, tanto più che non si parla del consumo dei beni di lusso ma della sua produzione.
Certamente, si può contestare l'”etica” del lusso di per sé: si tenga però presente che se la scelta è quella di concentrarsi su produzioni “povere”, il risultato finale nel medio-lungo periodo può essere solamente che il lavoratore italiano si troverà in condizioni analoghe di quelle del lavoratore indiano o cinese. E, temiamo, non sarà perché miglioreranno sostanzialmente le condizioni di lavoro in India o Cina.
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