Il Congressional Oversight Panel, il comitato creato dal Congresso USA a fare da supervisione all’uso dei fondi del TARP, il piano di aiuti alla finanza in crisi, nel rapporto di pochi giorni fa lancia qualche dubbio sull’efficacia della strategia finora adottata.
Nei sei mesi di attivazione del piano, infatti, sono stati impegnati poco meno di 600 miliardi di dollari provenienti dai fondi del TARP, ma il peso totale sui contribuenti americani (incluse quindi le risorse impiegate dal Tesoro, dalla Federal Deposit Insurance Corporation e dalla Federal Reserve Board) supererebbe i 4.000 miliardi di dollari. Forse troppo per ottenere risultati che vengono definiti “un misto di successo ed insuccesso”.
Il documento analizza le tre alternative possibili per affrontare la situazione, e sembra dare una preferenza per l’opzione della liquidazione dei soggetti in crisi (con annesso rinnovo del management), soprattutto rispetto alla strategia dei sussidi pubblici finora di fatto adottata. Vale la pena esaminare le tre opzioni, e i punti principali della relativa analisi, che si è basata sull’analisi non solo della crisi attuale, ma anche delle più significative esperienze del passato.
Sussidi alle imprese finanziarie in difficoltà
Questa categoria di aiuti comprende l’immissione diretta di capitale, così come anche l’acquisto da parte di soggetti governativi di asset a prezzi maggiorati, o la modifica degli standard di valutazione (in senso meno “prudenziale”). Sebbene sia una strategia che può portare dei risultati se la crisi è di breve durata, i sussidi tendono a comportare molteplici effetti collaterali, in particolare la distorsione del mercato e dei valori, oltre a creare potenziali problematiche di moral hazard. Il rischio concreto è quello di rinviare la ripresa economica, perché situazioni patologiche vengono di fatto prolungate nel tempo.
Riorganizzazione dei soggetti in difficoltà
Una strategia applicata nella crisi della Continental Illinois in USA nel 1984, così come in Svezia nella crisi finanziaria degli anni ’90, la riorganizzazione è di fatto una nazionalizzazione temporanea che prevede la sostituzione del management, lo spin-off di parte del business (con la separazione dei business “negativi”), in uno scenario che prevede la tutela unicamente dei correntisti e di alcune categorie di obbligazionisti. Una strategia che offre il vantaggio di avere alla fine soggetti finanziari con conti “a posto” dove la corporate identity viene mantenuta (ma non il management), il tutto offrendo ai mercati la massima chiarezza su quanto sta avvenendo. Il problema però è che i costi per il governo di una strategia di questo tipo possono essere estremamente elevati, forse ingestibili per una crisi di ampie dimensioni. Oltre a ciò si aggiunge quello che da europei viene da definire “il classico timore americano”, e cioè che lo Stato che entra direttamente nell’economia crea potenziali distorsioni che aumentano ogni momento che ci rimane (mettiamo il discorso in questi termini perché il Panel stesso non avrebbe individuato elementi che confermino ciò nelle crisi passate).
Liquidazione dei soggetti in crisi
La liquidazione prevede il passaggio dei correntisti (e dei loro conti) ad un’altra banca, per garantire la loro tutela, e la vendita degli asset, con l’azzeramento degli investitori. Non è una strategia esente da rischi, dato che se condotta male (in modo incoerente o “a sorpresa”) può produrre una almeno temporanea sfiducia nei mercati.
Di contro, se portata avanti in modo adeguato,però è una strategia estremamente chiara, che evita l’esigenza di valutazioni arbitrarie, e per quanto traumatica può ripristinare la fiducia nelle banche “sopravvissute”, potenzialmente accelerando il recupero dalla crisi.
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